I trend di cambiamento del fundraising per far crescere la propensione a donare degli italiani – Noi doniamo 2019

I trend di cambiamento del fundraising per far crescere la propensione a donare degli italiani – Noi doniamo 2019

Massimo Coen Cagli, Assif
Fondatore e direttore scientifico della Scuola di Fundraising di Roma (www.scuolafundraising.it). Docente e consulente senior di fundraising. Membro del Comitato Scientifico del Festival del Fundraising. E’ giunto al fundraising in quanto da sempre operatore e dirigente di organizzazioni non profit. Ha scritto il primo manuale italiano sul fundraising nel 1998 ed è autore di numerosi saggi  e ricerche. E’ promotore di una nuova visione del fundraising non solo come forma organizzata della filantropia ma come strumento della economia sociale e civile e come forma dell’azione sociale e collettiva. Di recente ha concentrato il suo impegno nella elaborazione e promozione di politiche per lo sviluppo del fundraising con particolare riferimento all’ambito della cultura e dei servizi di welfare.
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I trend di cambiamento del fundraising per far crescere la propensione a donare degli italiani

Il paventato crollo delle donazioni non è avvenuto. Bene!

A distanza di diversi anni dall’emergere di una delle più grandi crisi economiche mondiali (novembre 2008) e nonostante il calo di fiducia nelle organizzazioni non profit, il 20% di italiani over 14 hanno esperienze significative di donazione in denaro, di cui 14% almeno donano ad organizzazioni. Secondo altre indagini il 49% della popolazione italiana adulta nel 2018 ha effettuato almeno una donazione. Peraltro le organizzazioni – nel complesso – segnalano la tenuta delle raccolte di fondi. Il numero dei donatori torna a crescere nel 2018 (+385.000), crescono le persone che donano cifre medio-alte.

Questi sono dati molto importanti. Lungi dall’essere terminata, la crisi economica si è dimostrata essere un freno molto relativo alla raccolta fondi, così come l’ondata di critiche al non profit e in particolare alle ONG. Vi è quindi una componente “hard” del mondo della donazione  che è poco esposta a fattori endogeni che contrastano i comportamenti donativi. Potremmo parlare di uno zoccolo duro di individui che si conferma nei suoi comportamenti donativi sia nei confronti delle organizzazioni sia in modo più informale.

La personalizzazione dell’esperienza donativa

Molte ricerche mettono in evidenza (anche leggendo tra le righe dei dati) una tendenza alla disintermediazione e alla informalità dei donatori. Questo è legato a tratti culturali peculiari italiani (che da sempre privilegiano la informalità e le relazioni personali) ma anche al fenomeno più ampio della crescita della soggettività individuale che porta gli individui a bypassare le forme tradizionali di azione collettiva o a dare vita a nuove forme più leggere e volatili di azione sociale.

Azioni importanti di fundraising avvenute di recente, come il caso del sostegno alla Open Arms o l’attivazione in tutto il mondo di donatori grandi e piccoli a seguito dell’incendio di Nôtre Dame de Paris o, più in piccolo, l’azione spontanea di cittadini a Lodi per garantire attraverso una raccolta fondi che i bambini di origine straniera potessero fruire della mensa scolastica (che l’amministrazione aveva negato loro) sono tutti segnali che vanno colti in tale quadro.

Le organizzazioni sociali non sono più indispensabili per promuovere e realizzare campagne di raccolta fondi. Per dirla in altri termini un po’ tranchant: è finito il monopolio delle raccolte di fondi da parte delle organizzazioni non profit.

Va letta in tal senso la crescita significativa delle raccolte fondi su facebook (che proprio in questi giorni viene estesa anche a instagram) e le tante iniziative di personal fundrasing che si stanno moltiplicando con successo su piattaforme di raccolta foni e in particolare su Rete del Dono.

Al di là del giudizio su questa tendenza – che compete più alla sociologia che al fundraising -, è evidente che è necessario cogliere la crescente capacità autonoma di autorganizzazione degli individui e delle reti sociali (amplificata dagli strumenti di internet) integrandola negli schemi più tradizionali dell’azione collettiva organizzata.  Certamente si tratta di farlo non tanto fornendo loro degli schemi organizzativi precostituiti che ormai fanno parte di una stagione dell’associazionismo e dell’azione sociale non adeguata alla cultura attuale.

Le motivazioni, queste sconosciute

Con l’aumento della soggettività individuale assistiamo anche ad un dispiegarsi fecondo delle motivazioni che portano gli individui a donare. Difficile rinchiudere in categorie rigide i donatori allo scopo di creare una tipologia semplificata. Da questo punto di vista le differenti indagini si prestano tutte a letture differenti. Quello che è certo (e forse è una difficoltà riscontrata nelle ricerche) è che ad “individui complessi” corrispondono “motivazioni complesse” e non univoche. Siamo di fronte all’esplosione motivazionale dei donatori connessa ad una molteplicità di fattori: culturale, sociale, psicologico, neurologico, politico, ecc…

Dalle indagini emerge per altro che i donatori (sicuramente quelli più fedeli e che hanno comunque comportamenti donativi non occasionali) sono soggetti “forti”: cultura medio alta, classe sociale medio alta, consumatori culturali, informati, orientati all’impegno per i beni comuni, solidaristici. Potremmo parlare di uno sviluppo qualitativo (umano e culturale) del donatore medio al quale forse non corrisponde una crescita adeguata dell’offerta da parte delle organizzazioni.

Questo vuol dire che gli approcci meramente economicistici o di marketing nella individuazione dei target fanno difficoltà a rappresentare adeguatamente la popolazione dei donatori. La donazione è una esperienza costantemente in evoluzione che si trasforma “just in time”. Una esperienza di impegno sociale – più che un singolo atto – ma anche una ricerca costante di identità sociale o di un suo rafforzamento, in cui la donazione è uno degli atti possibile, sicuramente tra i più importanti, ma non per forza l’obiettivo unico dell’azione del donatore. In tal senso appare importante guardare ai diversi fenomeni donativi (denaro, tempo, organi e sangue) e forse si dovrebbe guardare in modo integrato anche ad altri fenomeni che rientrano nel contesto del bisogno/desiderio degli individui di attivarsi socialmente.

Se questo è il quadro evolutivo del comportamento donativo, il rapporto con i donatori oggi deve essere inteso come un dialogo piuttosto che come una comunicazione a due vie per comprendere meglio l’esperienza donativa che un individuo ha con una organizzazione. Forse è finito il tempo della “targetizzazione” in senso tradizionale o, meglio, questo approccio oggi ha bisogno di essere corretto con una conoscenza esperienziale del donatore.

I nuovi player del fundraising

Un ulteriore trend molto importante anche se poco indagato in modo specifico, è l’aumento e la diversificazione dei player della raccolta fondi, ossia delle organizzazioni (di diversa natura) che si fanno protagoniste di azioni di raccolta fondi.

Parliamo di Musei, Teatri, Biblioteche e in genere tutte le istituzioni culturali pubbliche e non profit; di start up di vario genere che hanno al loro centro la causa sociale della creazione di opportunità lavorative e professionale dei giovani; di servizi socio-assistenziali che fino a ieri vivevano solo dei fondi derivanti dal sistema di welfare state (ospedali, servizi assistenziali comunali, ambulatori sociali, ecc..), di progetti anche complessi di sviluppo locale, come nel caso della rigenerazione dei borghi minori, dei nuovi servizi di welfare come l’housing sociale, le strutture di assistenza alle persone anziane, ecc.)  e di molto altro ancora.

In poche parole: il fundraising non è più uno strumento esclusivamente appannaggio delle organizzazioni non profit (associazionismo, ONG, cooperazione sociale) ma è sempre più uno strumento di economia sociale e di comunità necessario per perseguire cause sociali autonomamente dall’economia pubblica e dall’economia di mercato. Aspetto che per altro è presente da secoli nella cultura italiana della raccolta fondi.

Questo crea una maggiore competizione (ma anche una estensione, almeno potenzialmente, della base di donatori) proprio perché attrae nuove motivazioni e nuovi comportamenti donativi che fino ad oggi non si sono riconosciute nelle proposte del mondo non profit tradizionale).

Questo fenomeno contribuisce enormemente a rendere centrale l’aspetto della efficacia dell’azione proposta quale oggetto di raccolta fondi, portando in secondo piano aspetti quali la fama e la credibilità di una organizzazione (di un brand) o la fama di una causa sociale. Questo porterà inevitabilmente i donatori a dedicare una maggiore attenzione valutativa sul rapporto tra i soldi donati e i risultati effettivamente raggiunti dalle  azioni finanziate. Nella logica della valutazione di qualità avranno sempre meno peso gli obiettivi e le finalità generali e sempre più la efficacia, ossia la capacità di raggiungere gli obiettivi proposti; gli impatti, ossia i cambiamenti irreversibili prodotti dall’azione sulla realtà oggetto della azione e sugli individui e la pertinenza, ossia la capacità di scegliere gli obiettivi giusti per rispondere alle sfide del contesto.

Credo che la crescente difficoltà riscontrata dalle organizzazioni nel fidelizzare i propri donatori – segnalata in alcune indagini – sia legata in gran parte alla scarsa capacità di tematizzare questi aspetti concentrandosi solo sulla cortesia, la gestione delle relazioni e la mera informazione. Tutte cose importantissime e obbligatorie, ma sempre meno sufficienti a garantire che soprattutto i donatori più consapevoli rimangano fedeli ad una causa.

Le aziende si muovono

Le aziende rappresentano ancora una componente minoritaria della raccolta di fondi (13-15% del totale delle entrate). Vi è un piccola ripresa dopo la crisi economica, anche se questa sensazione non è sostenuta attualmente da indagini rigorose e attendibili; indagini che in questo settore sono ancora carenti. Dalla esperienza diretta dei professionisti fundraiser però cogliamo nelle aziende un rinnovato dinamismo non solo da un punto di vista meramente erogativo ma da un punto di vista teorico e strategico. Sempre più aziende si interrogano sul senso che le proprie politiche di finanziamento verso cultura, sociale, ambiente, ecc.. debbano avere per l’azienda sia nei rapporti con la società nel suo complesso sia in relazione ai propri obiettivi di business.

Questa tendenza va colta con attenzione dalle organizzazioni e dai fundraiser che non devono solo incrementare le loro attività di corporate fundraising, ma soprattutto devono essere in grado di dialogare con le aziende per disegnare una politica di fundraising comune. Si tratta di pattuire in modo nuovo le ragioni di fondo della filantropia di impresa sia sul versante di chi dona (le aziende) sia sul versante di chi fornisce progettualità sociale e culturale da finanziare (le organizzazioni).

È una occasione importante per porre le basi di una nuova stagione di partnership privato/non profit che superi i vecchi schemi della semplice filantropia e alcuni inutili formalismi legati alla cosiddetta responsabilità sociale di impresa.

Digitale sì, ma integrato.

Tutte le ricerche mettono in evidenza una più che significativa crescita del fundraising on line. Alcuni dati rappresentano in modo sintetico questa evoluzione:

  • l’80% degli onliners hanno esperienze di donazione;
  • sono principalmente donatori occasionali (85%) 
piuttosto che regolari (15%);
  • sono propensi alla disintermediazione rispetto alle organizzazioni (aumenta il crowdfunding);
  • tendono sempre più a donare on line (18%) principalmente con il mobile. Sono i donors “all on line”, che non sono però la maggioranza;
  • cresce enormemente la quota di persone che fa personal fundraising. Persone che hanno un rapporto offline con la organizzazione beneficiaria e agiscono anche on line.

In linea di massima questo trend sembra essere la conseguenza naturale di un aumento generale delle persone a comunicare, scambiare, informarsi tramite gli strumenti del web. Sinceramente ci saremmo stupiti del contrario! Tuttavia la tendenza al fundraising on line porta con sè alcuni cambiamenti sostanziali nella natura delle donazioni che assumono, come vediamo dai dati, tratti di flebilità e discontinuità non sempre positivi: disintermediazione, occasionalità dei comportamenti donativi, relazioni meno stabili (sostituite da “connessioni”, come diceva Bauman), adesioni tendenzialmente emotive piuttosto che razionali.

Questo trend quindi va colto in una ottica di forte integrazione tra relazioni on line (tendenzialmente volatili) e relazioni sociali dirette e “off-line” (più durature), per correggerne gli aspetti negativi e rendere più proficuo l’uso di internet ai fini della raccolta fondi.

La crescita dei fundraiser e la femminilizzazione del fundraising

In Italia non esiste un vero e proprio censimento delle persone che svolgono in maniera rilevante funzioni di fundraising (professionisti retribuiti o volontari interni ad una organizzazione, consulenti esterni, addetti alla raccolta fondi senza titoli professionali, ecc.).

Nel 2019 è stato pubblicato il “2° Censimento nazionale dei Fundraiser”, realizzato da Valerio Melandri, Philanthropy Centro Studi (Università di Bologna), in collaborazione con ASSIF Associazione Italiana Fundraiser e Associazione Festival del Fundraising. Questa ricerca, di carattere quali-quantitativo,  ha permesso di individuare in modo certo 1.641 fundraiser che svolgono l’attività professionalmente e in modo retribuito e che sono stati intervistati tramite questionario.

Rispetto ad una precedente analoga ricerca si nota una sostanziale crescita del numero di addetti. Più in generale si stima che oggi siano attivi in Italia non meno di 10.000 fundraiser (alcune stime parlano addirittura di 20.000). La difficoltà nello stabilire un numero attendibile è legata anche al concetto operativo di fundraiser utilizzato nelle ricerche e agli ambienti organizzativi presi in considerazione (non sempre chi cerca fondi nella Pubblica Amministrazione, come nel caso delle istituzioni culturali, viene poi ritenuto fundraiser al pari di chi opera nelle organizzazioni di terzo settore).

In ogni caso è evidente che vi è una grande crescita della professione. La rivista Wired già da qualche anno segnala come quella del fundraiser sia una delle professioni del futuro. Il Report sulle professioni del futuro del 2018, realizzato dal World Economic Forum, mette in evidenza i tratti che saranno richiesti ai professionisti del futuro tra i quali rientrano quasi tutti quelli che caratterizzano i fundraiser professionisti: capacità di relazione e in generale “capacità umane”, analisi di dati (big data), comunicazione digitale e sociale.

Ad oggi, in Italia, i tratti più rilevanti di questi nuovi professionisti sono l’essere donna (70% circa dei professionisti, anche se su di esse pesa ancora il “tetto di vetro” che preclude loro posizioni dirigenziali), quarantenni, provenienti da diverse discipline e con percorsi formativi molto differenziati (una professione multidisciplinare per essenza).

Posto che la maggioranza dei donatori fedeli sono donne, questo fa pensare che vi sia un aspetto strutturale di fondo che lega il fundraising e la donazione al genere femminile. E di questo bisogna tenerne conto.

Segnaliamo questo trend per due motivi: il primo è che la crescita delle donazioni non può che essere trainata da un aumento del numero dei professionisti. I dati mostrano che si raccoglie di più e meglio laddove l’organizzazione ha persone incaricate di occuparsi stabilmente della raccolta fondi. In altri termini la crescita delle donazioni non è guidata solo da fattori esogeni alle organizzazioni ma anche e soprattutto da fattori endogeni (bisognerebbe tenere conto maggiormente di ciò quando ci si interroga sull’andamento in negativo della raccolta di fondi di una organizzazione). Il secondo è che rimane nel nostro paese un enorme gap tra il numero di organizzazioni e il bisogno di una migliore sostenibilità da esse espresse in tutte le indagini, e il numero di addetti al fundraising. L’Italia si caratterizza ancora una vota per la scarsa tendenza ad investire su capitale umano strategico per lo sviluppo, sia al livello delle singole organizzazioni, sia ad un livello più generale (istituzionale) che evidentemente non ha compreso l’enorme potenziale di questa nuova figura professionale. E questo non è un trend positivo.

Più ricerca e più qualitativa

Dalla lettura complessiva delle ricerche e delle indagini statistiche o meno, emergono alcuni trend ma anche “molti punti interrogativi”, ossia aspetti connessi con la donazione ancora opachi se non oscuri, sui quali è difficile fornire interpretazioni certe. Emerge quindi una necessità che noi di Assif riteniamo improcrastinabile: aumentare il livello quali-quantitativo della ricerca sul fundraising e sulle donazioni in Italia. Se il fundraising e le donazioni sono importanti per la sostenibilità del nostro paese, non possiamo pensare di farli crescere se non disponiamo di dati e informazioni utili a conoscere meglio la realtà e a presidiare con efficacia i trend di cambiamento.

È necessario dare vita ad una stagione di forte collaborazione tra enti ed istituzioni che si occupano di ricerca, a diverso titolo, da quella statistica e istituzionale (come nel caso dell’ISTAT) a quella di mercato e di marketing, a quella più centrata sulle organizzazioni, a quella sociologica e via di seguito anche per condividere – insieme alle organizzazioni – quali siano i fenomeni e i fatti che è necessario conoscere e spiegare. In paesi dove vi sono alti livelli di donazione e di fundraising vi sono sistemi di ricerca solidi e soprattutto che creano forti sinergie tra i diversi attori. Non a caso, lo sviluppo della ricerca sul fundraising e le donazioni è uno degli obiettivi strategici di Assif.

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