Luoghi e significati del dono: il caso degli Empori solidali – Noi doniamo 2019

Luoghi e significati del dono: il caso degli Empori solidali – Noi doniamo 2019

Monica Tola, Caritas Italiana
Nata in Sardegna, sposata, mamma di due bambini. Dal 2000 lavora in Caritas Italiana, dove attualmente, all’interno dell’Ufficio Politiche sociali e Promozione umana, è impegnata nell’accompagnamento delle Caritas diocesane in ambito di progettazione sociale. Si occupa in particolare del collegamento dei servizi per la distribuzione di aiuti materiali.
Rappresenta Caritas Italiana al “Tavolo per la lotta agli sprechi e per l’assistenza alimentare” presso il Ministero della Politiche agricole, alimentari forestali e del turismo.
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Luoghi e significati del dono: il caso degli Empori solidali

Estate 2019, fine scuola. Il mio figlio più piccolo mi saltella intorno, eccitato per la pagella: “Sono stato bravo, mamma! Mi fai un regalo?”. Non me la cavo bene con la corrispondenza tra circostanze e pacchetti, prendo tempo: “Intendi un regalo o un dono?”. “È la stessa cosa”, risponde lui impaziente di avere il suo premio. Il fratello maggiore mi scippa la lezione: “No! Un regalo lo fai a una persona normale. Un dono lo dai a chi ha bisogno”.

Penso a quanto le esperienze influenzino in modo determinante la comprensione di parole e l’interiorizzazione dei significati. Per il minore dei miei figli, da sempre il più vivace, “dono” è regalo, e il regalo è direttamente collegato al merito di essere stato bravo: è un premio. Per il mio primogenito, che ascolta le mie conversazioni telefoniche, è immediata l’equivalenza tra dono e donazione – di cibo, soprattutto, ma anche di altri beni e servizi – come pure la finalizzazione nella risposta al bisogno.

L’aiuto materiale, e alimentare soprattutto, costituisce una porzione molto ampia dell’azione della Chiesa sui territori. Circa il 70% degli interventi erogati attraverso i Centri di Ascolto Caritas è di tipo materiale. In tutta Italia la Chiesa promuove[1], anche in collaborazione con altre realtà, oltre 3.300 Centri di Ascolto, impregnati nel sostegno diretto o indiretto a più di 800.000 persone; oltre 3.800 centri di distribuzione di beni primari (vestiario, cibo, farmaci, …); più di 1.000 mense, che erogano oltre 29.000.000 di pasti all’anno.

A questi servizi, nell’ultimo decennio, si sono aggiunti 186 Empori solidali][2], ormai diffusi in tutta Italia, secondo la ricognizione realizzata da Caritas Italiana e CSVnet nel dicembre scorso. La formula è ormai piuttosto nota: l’aspetto, l’organizzazione e l’allestimento degli spazi degli Empori – nonché le certificazioni richieste per l’apertura – richiamano un piccolo market, dagli scaffali, alla cassa, ai banchi dedicati a prodotti specifici. Le persone, inviate da un centro di ascolto e/o dai servizi sociali che garantiscono la regia sugli interventi di sostegno, possono scegliere, e acquisire gratuitamente attraverso una tessera punti, tra gli alimenti e altri generi di prima necessità.

Nati dalla capacità delle organizzazioni caritative di mettere in discussione prassi consolidate di aiuto materiale che non riuscivano a dare risposta ai bisogni delle famiglie, e in particolare di quelle con figli minori, gli Empori non possono essere considerati una panacea, né un servizio da replicare in maniera indifferenziata sui territori, una soluzione migliore di altre per tutte le numerose forme e dimensioni della povertà̀ che affliggono milioni di persone in Italia. Tuttavia, il numero relativamente ridotto e la spiccata propensione alla costruzione di alleanze inedite, li rende un caso interessante per osservare le caratteristiche di processi che, pur faticosi e lenti, stanno progressivamente giungendo alla costruzione di sistemi territoriali solidali.

Accanto agli alimenti non deteriorabili, questi servizi riescono a garantire alimenti freschi e ortofrutta, prodotti per neonati, l’igiene e la cura della persona e della casa, cui non di rado si aggiungono indumenti, prodotti farmaceutici, i materiali scolastici e piccoli arredi.

La quota di beni materiali resi disponibili da donazioni negli Empori, si attesta attorno al 30%, ed è l’esito di un sistema di sostegno che comprende, su tutto il territorio nazionale, oltre a 300 Comuni, più di più di 600 enti del Terzo Settore e, parlando di dono, oltre 5.000 volontari e 1.200 imprese.

Uno spaccato significativo tanto più se collocato nel quadro più ampio derivante dall’applicazione della Legge 166/2016 Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi, che secondo il Sole24Ore dell’8 settembre scorso, ha portato nel 2018 al recupero di oltre 1,1 milioni di farmaci, circa 700mila pasti da mense e cucine ospedaliere, più di 7.600 tonnellate di eccedenze alimentari dalla Grande distribuzione organizzata, con un incremento del 36% di prodotti recuperati dalla sola Rete Banco Alimentare a beneficio di oltre 8.000 strutture caritative in tutta Italia.

Se si considera che la Legge definisce la donazione come la cessione a titolo gratuito di beni invenduti (o non vendibili perché privi per diversi motivi di valore commerciale) per fini di solidarietà sociale, non appare poi così insensata, l’idea maturata da un bambino di dieci anni che il dono sia funzionale alla risposta a un bisogno. A maggior ragione se si osserva quanto sia frequente l’ingannevole sovrapposizione dei termini “dono” e “donazione”.

Negli ultimi due anni, dall’avvio del Coordinamento nazionale sugli aiuti materiali proposto da Caritas Italiana alle 218 Caritas diocesane, il tentativo di distinguere e connettere dono e donazione, riconoscendo l’apporto fondamentale nel rendere sostenibili ed efficaci tanti servizi di sostegno alle persone in difficoltà, mi ha portato spesso a confrontarmi con un certo disagio di volontari e operatori. Ho raccolto in particolare a fatica di offrire alle persone che vivono difficoltà temporanee, o grave deprivazione cronica, prodotti con il termine minimo di conservazione superato, frutta un po’ ammaccata, cibo recuperato, … Prodotti non solo commestibili, ma spesso squisiti, che gli italiani, anche a livello domestico, stanno finalmente imparando a non sprecare. E dei quali la Legge facilita la donazione, rendendola – anche fiscalmente – più conveniente dello smaltimento. Eccedenze, dunque, non avanzi. Ma che non possono essere acquistati fuori da un Emporio solidale, e non sono destinati a coloro che non hanno la necessità di chiedere aiuto. Uno “squilibrio” che rischia quanto meno di intaccare gli sforzi per garantire anche la dignità della scelta alle persone accompagnate, che negli Empori possono acquistare i prodotti che preferiscono.

A quali condizioni un cibo recuperato può essere riconosciuto come dono da chi lo riceve? Che cosa rende la donazione di un’eccedenza a un ente caritativo, un dono per queste persone, e addirittura per la comunità?

Nella mia esperienza personale cibo e dono sono fortemente legati, e, nei ricordi dell’infanzia in Sardegna, risuonano entrambi della voce di mia nonna: “De su donau si ‘ndi donada”, diceva in sardo. “Di ciò che è stato dato, si dà”; o meglio: “di ciò che è stato ricevuto in dono, si dona”. Lo ripeteva annodando il grembiule bianco sulla lunga gonna nera della sua vedovanza, preparandosi a impastare dolci con le uova e la ricotta che un vicino le portava. Aggiungeva farina, zucchero, e la scorza grattugiata dei limoni e delle arance che chiedeva a un altro vicino, dagli alberi del suo cortile. Poi, prendeva un vassoio per ciascuna famiglia del vicinato, e mentre i dolci erano ancora caldi li confezionava con cura. Sceglieva i più belli per chi in quel momento viveva un dolore o una gioia. Poi ci spediva, noi bambini, a portare di casa in casa quelle delizie semplici e familiari: “di’ che sono fatti con le uova di zio … Ma torna subito”, si raccomandava, “non disturbare”. L’ultima visita riportava al proprietario, carichi di dolci, anche il paniere delle uova e la fustella della ricotta: la nonna ci teneva che sapesse in quali case eravamo stati prima.

Lei riceveva eccedenze, impastava, e alla fine distribuiva doni.

Credo che la prima condizione per questa trasformazione stesse nella intenzionalità con la quale quelle uova e quella ricotta arrivavano in casa nostra: forse erano davvero “in più”, ma certamente non di molto. Avrebbero potuto essere consumate dalla famiglia di chi ce le portava; non sarebbero andate sprecate…  Ma arrivavano alla nonna perché era noto che avrebbe preparato i dolci, e li avrebbe portati a tutti. Per essere tale un dono deve essere pensato a monte non per essere semplicemente ceduto, ma per essere condiviso.

Una seconda condizione per poter trasformare eccedenze in doni è la capacità di non ridistribuirle semplicemente come risposta, ma di gestirle come risorse. Per la nonna sarebbe stato più rapido – e comunque utile – assicurare ad alcune famiglie in povertà economica un pasto proteico. Ma uova e ricotta erano utilizzate come mezzo per creare qualcos’altro. Per essere tale, un dono deve essere libero e liberato da qualsiasi vincolo di corrispondenza (tipico della risposta) all’occasione (il regalo), al merito (il premio) e persino al bisogno (l’aiuto). In questo modo può liberare chi lo riceve non soltanto dall’obbligo di restituirlo, ma soprattutto dalla fissità di sguardo sulla propria condizione di deprivazione o fragilità che è la base, spesso inconsapevole, delle dinamiche assistenziali. Non a caso, la valorizzazione delle potenzialità̀ presenti nelle famiglie sostenute dagli Empori è il fulcro dei così detti “parti di reciprocità” che riconoscono anche alle persone sostenute sul piano materiale la possibilità di contribuire al bene comune, attraverso la partecipazione a percorsi laboratoriali aperti al territorio, attività di volontariato o il reinserimento lavorativo.

Un terzo presupposto per trasformare eccedenze in dono è l’arricchimento relazionale dei beni materiali. La donazione può essere un innesco, un atto prezioso, ma resta singolo. Il dono è invece energia che si libera da una reazione complessa. E questa reazione richiede, anzi esige, l’impegno di chi, per restare sulla mia nonna, riceve, suscita e impasta, connettendole, risorse diverse, a partire dalle proprie. E permette che arrivino a tutti, con una confezione accurata.

Non si tratta solo di comporre filiere lineari per il reperimento, il trasporto e la distribuzione di beni materiali per garantire la migliore finalizzazione delle donazioni. È soprattutto necessario valorizzare ogni singola disponibilità (dal cibo al tempo dell’ascolto, dal mezzo di trasporto alle competenze amministrative, dalle risorse economiche al magazzino) in relazione con le altre, attorno al bisogno delle persone di stare bene, non solo di sopravvivere. Questo stare bene è stato, nella mia esperienza, l’esito del dono: mia nonna preparava dolci, superflui alla sopravvivenza, perché ciascuno – chi aveva dato come chi riceveva – avesse in casa un po’ di festa.

Non è semplice nella realizzazione ordinaria dei servizi di aiuto materiale, compresi gli Empori, ma la sfida dell’inclusione, passa dalla occasione per chi riceve beni materiali, di condividere questo scopo e scoprirsi nella possibilità di poter donare a propria volta. Succede, ad esempio, laddove le eccedenze alimentari vengono trasformate da persone in difficoltà in minestre, marmellate o conserve che arrivano agli Empori e alle mense Caritas. O quando donne a rischio di esclusione sociale confezionano con cura kit di indumenti intimi, eccedenze di produzione di alcune imprese, che saranno distribuiti a uomini, donne e bambini in difficoltà. Succede, dove un giovane padre, prima di tornare in carcere, mette a tavola il pranzo della domenica per gli ospiti di un centro di accoglienza, cucinando le ricette della sua mamma, …

Succede. Come quando ero piccola e i doni veri li portava a Natale solo il Gesù Bambino. E non avevano niente a che fare con il bisogno né col merito (a quello ci saremmo arrivati poi, con Babbo Natale). Arrivavano perché avevi affidato a una lettera piena di aspettativa il desiderio, e la fiducia, che quel Bambino riconoscesse proprio te, la tua bontà tra quella di tutti gli altri, e lasciasse sotto l’albero la prova che eri speciale, non solo che avevi bisogno di essere salvato.

[1]Dati e stime da OsPo Risorse, piattaforma di Caritas Italiana per l’aggiornamento periodico dei servizi ecclesiali socio-assistenziali

[2] Dato aggiornato ad agosto 2019

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